Cadeva nel piatto a suon di coltellate. I camerieri erano veloci e abili a smistare la carne, infilzata allo spiedino in acciaio. Pareva aggrappata a quel bastone quasi come se volesse difendersi dalla furia della lama.
<Basta non ne posso più>, disse Ilaria. <Salsicce, pollo, tacchino, costine e capocollo di maiale, agnello, picanha, manzo, filetto e controfiletto, forse anche spinacione di manzo… Ma non ne avete fin sopra le orecchie, voi?>.
<Rilassati, è l’ultima sera, domani prendiamo l’aereo e non mangiamo… Ci dormiamo la Recife-Milano… Tutta la tratta>, rispose Marco.
Io non partecipavo alla conversazione. Mi godevo l’ultima razione di caldo tropicale e l’estrema libido da churrasqueria.
Avevamo scelto la più rinomata di Natal, capitale del Rio Grande do Norte. Si trovava sulla passeggiata di Punta Negra, nota agli italiani come “Puta negra”.
Era un posto incantevole, giocato tra mare, dune di sabbia, palme e puttane. Punta Negra era il paradiso del turista sessuale e dei mangioni e beoni, come eravamo noi.
I tavoli del ristorante erano su di una terrazza al primo piano, poco sotto le stelle. Le tovaglie di carta erano mosse da una leggera brezza.
L’odore di carne, bruciata sulla griglia, si mischiava a quello del vino, che precipitava copioso nei bicchieri; e a quello dello iodio. Le onde alte dell’oceano, sbattute sulla battigia, sprigionava maestosi vapori.
Stella era indignata. Non vedeva che giovani mulatte, accompagnate da uomini, in prevalenza anziani ed europei.
<Roba da denuncia al tribunale dei minori>, ripeteva sottovoce. Lo faceva in continuazione, quasi come se stesse recitando un mantra.
Io mi rilassavo a sorsi di “Quinta do Seival Casta Portuguesas Safra”, annata 2011. Era un vino rosso corposo, adatto all’invecchiamento. Di sicuro era indicato per le carni alla griglia. Ma era decisamente poco adatto per quelle latitudini.
Bevevo e sudavo. Il mio palato era al settimo cielo. Mi beavo del mio sudore, come facevo alla fine di una partita di calcetto giocata bene e dando il massimo.
Di tutto quell’inganno, m’importava poco. <Son donne locali che prendono in giro uomini stranieri o donne povere, sfruttate da ricchi europei?>, m’interrogavo in silenzio.
<In ogni caso, non possiamo mica mettere un tutor al locale, che impedisca quello che sta capitando… Ognuno risponde alla propria coscienza.. Mica sono minorenni queste ragazze!>.
<Dai, non vedi che c’è anche gente normale? Giovani con giovani>, dissi a Stella per tranquillizzarla. Feci cenno al tavolo accanto al nostro. Era praticamente attaccato, come un asciugamano steso su di una spiaggia troppo affollata.
Un ragazzo italiano, giovane, carino e alla moda, banchettava con una mulatta. Anche lei era in tiro… Cioè, era abbastanza ben vestita.
Il mio sguardo non sfuggì al giovane.
<Ciao, sono Francesco.. Vengo qui da almeno 10 anni, tutte le estati…>.
Questo Francesco attaccò un bottone incredibile. Era di Brescia, era laureato in economia e commercio e lavorava a Milano in banca. Amava il Brasile, almeno quanto se stesso.
La mulatta era seduta di fronte a lui, ma praticamente anche di fronte a me.
<A Punta Negra? Non veniamo mai… Questo è un posto malfamato>, disse, senza che gli chiedessimo nulla.
<Lei? Non è una prostituta… Per convincere i suoi genitori a portala fuori a cena, ci ho impiegato tre settimane. Siamo fidanzati ufficiali>.
Il bresciano incominciava a molestarmi. Non lo digerivo. Perché doveva raccontarmi gli affari suoi, così? Perché non mi diceva invece che cosa faceva tutti i giorni, quali spiagge frequentava e quali erano i posti della città più belli?
Stella era ancora più imbarazzata. Io osservavo Francesco. Portava una camicia azzurra a maniche lunghe, risvoltate fino al gomito. I suoi jeans erano blu scuro, praticamente, appena usciti dal negozio. Vestiva come facevo io per andare al lavoro. In quella vacanza non mi ero portato nemmeno un paio di calzoni lunghi, tanto meno delle camicie.
Era davvero un bel tipo. <Peccato l’atteggiamento>, pensai.
Poi, presi in mano il bicchiere e sorseggiai l’ennesimo giro di “Quinta do Seival Casta Portuguesas Safra” annata 2011. Era proprio buono.
Stella incominciò a parlare con Francesco. Poi, nella conversazione, s’inserirono anche Marco e Ilaria.
Gli raccontarono del nostro giro in Brasile… Eravamo stati prima a Rio, poi a Manaus in Amazzonia, poi a Salvador, per chiudere con qualche giorno di riposo al mare, lì a Natal.
Francesco pareva non conoscere nulla al di fuori di Natal. Sospettai fosse anche tossico. Il nostro volo d’andata era pieno di ragazzi esuberanti. Alcuni dicevano apertamente che nel Nord Est si andava <solo per la fica e per la bamba>, cioè la cocaina a basso costo.
Quei discorsi mi mettevano tristezza. Pensavo agli emigrati piemontesi dei primi del Novecento, approdati, tra mille peripezie, in Sudamerica per cercare di costruire qualcosa, per farsi una vita.
Adesso i loro bis-nipoti, tornavano per distruggersi l’esistenza.
Volli scacciare quelle riflessioni. Era l’ultima sera e non avevo voglia di tristezza.
Mi versai ancora del vino e presi parte alla conversazione con Francesco.
Pian piano stava diventando divertente, anche se le sue confessioni intime e non dovute, mi lasciavano perplesso.
<Questa è una cassaforte, non me l’ha ancora data… Non ho ancora trovato la combinazione>, disse rivolgendo la sguardo alla sua compagna mulatta.
<Ma perché vuol farci credere che sia una santa?>, mi domandò Stella, sottovoce.
<Boh! Forse ha sentito i tuoi discorsi da moralista di prima…>, azzardai.
La mulatta se ne stava zitta. Era impassibile. Per lei era naturale che nessuno le rivolgesse la parola o cercasse almeno di tradurle le nostre conversazioni.
Improvvisamente, qualcosa mi solleticò la caviglia. Non ebbi il tempo di chiedermi che cosa fosse, che il solletico aveva già raggiunto il ginocchio, dopo aver massaggiato il polpaccio.
Era il piede della mulatta. Era morbido, delicato. Era sensuale.
Guardai Francesco imbarazzato. Ero quasi spaventato… <Guarda che non ho fatto niente>, avrei voluto dirgli. Ma lui proseguiva a osannare la sua madonna caffelatte.
Non si era accorto di nulla.
Allora, guardai in faccia la mulatta, della quale, per altro Francesco, in tutta la sera, non ci rivelò mai il nome. Lei rispose con un occhiolino, alzando poi le pupille al cielo.
Io, al cielo alzai proprio la testa. C’erano così tante stelle che parevano polvere fosforescente. <Dio ha appena svuotato il suo Dyson DC 62, digital slim, onnipotente e maestoso>, pensai. <Chissà quanti pavimenti e in quali galassie ha aspirato, per uno spettacolo simile!>.
Decisi di rimanere indifferente. Era possibile? Nessuno si accorgeva di cosa stesse avvenendo.
Francesco raccontava, serafico.
Stella obiettava, stizzita.
Marco annuiva, servizievole.
Io bevevo vino, impassibile.
E lei? La mulatta? Proseguì il gioco di seduzione. Oltre a lanciarmi occhiate, iniziò a mostrare la punta della lingua, con discrezione. Poi, tornò a farmi piedino.
<Ci amiamo proprio tanto!>, affermò ancora Francesco per l’ennesima volta.
<Ma di chi parli?>, chiesi con un tono quasi incazzato.
<Perdonalo, siamo alla terza bottiglia, in quattro… Non ci sta più troppo dentro>, prese le mie difese, Stella.
<…E meno male che qualcuno ha capito!>, urlai.
Poi, ordinai la quinta bottiglia e offrii un bicchiere di “Quinta do Seival Casta Portuguesas Safra”, annata 2011, a Francesco. Volevo farmi perdonare la scenata e forse anche l’atteggiamento della sua compagna.
<Al vostro amore!>, brindai.
Ci alzammo tutti in piedi. La fidanzata di Francesco portava una minigonna molto attillata. Era una donna bella e dalle forme perfette.
Al posto di un classico cincin, la mulatta strusciò il vetro del suo bicchiere, con quello del mio. Fu come ricevere una carezza.
Andammo avanti a parlare e a bere ancora a lungo. Poi, la coppia se ne andò. Capitò all’improvviso, o almeno così a me parve…
<Ma Francesco sarà davvero felice, come dice di essere?>,chiesi ad alta voce, subito dopo.
<Perché non dovrebbe… Ti assicuro che non si è davvero accorto di nulla>, osservò Stella.
<E lei?>.
<Lei? Lei vuole solo sopravvivere>.
Stella aveva capito tutto. Rispetto a inizio serata, pareva fosse passata un’era geologica.
Poi, proseguimmo nelle ironie di quella strana cena. <Da farci un film… Farebbe concorrenza a “La cena dei cretini”… avete presente quel film francese con François Pignon?>, disse ancora Stella.
<Già, lo potremmo intitolare “La cena di Natal”, ma visto che sarei io il protagonista, lo renderei ancora più piccante>, risposi.
<Sei il solito porco! E poi tutti lo prenderebbero per un cine panettone!>, ringhiò Stella.
Ilaria fece notare che sul muretto c’erano due gechi. Erano uno sopra l’altro.
Facevano l’amore.
<Ecco cosa sono andati a fare Francesco e la sua mulatta. Ecco perché sono volati via di fretta>, pensai ad alta voce.
<Beato lui… anzi beati loro>, intervenne Marco.
Già… chi era beato?
Proprio non riuscivo a capirlo. Ero io, lì a mangiare e bere con gli amici, ma senza una fidanzata e senza il coraggio di averne una; o lui, Francesco, che più o meno era messo come me, ma almeno aveva trovato una via per sentirsi amato?
Sulla tavola, i camerieri avevano portato via tutto tranne i bicchieri. Il mio era ancora mezzo pieno di “Quinta do Seival Casta Portuguesas Safra”, annata 2011. Quello di Francesco era vuoto.
Prima di andarsene, se l’era scolato tutto.