La prima volta alla vecchia taverna, ci capitai per caso. Cercavo un certo artigiano in quel reticolo di vie strette e quadrate di Borgo Campidoglio. Era l’ora di pranzo e avevo anche un certo appetito. Fui guidato dal profumo intenso di minestrone. Varcai quella soglia senza badare più di tanto a dove stavo entrando. Non sapevo ancora che presto quella piola dai tavoli in legno, incisi dal tempo e dall’usura, sarebbe diventata la mia mensa.
Ci ritornai spesso, anzi direi sempre.
Allora ero single. Lavoravo come bracciante nei cantieri stradali e avevo diverso tempo libero. Sceglievo un tavolo piccolo, mi accomodavo e poi tiravo fuori matita e carta. Per ingannare le ore, disegnavo i volti degli avventori.
Andai alla vecchia taverna anche quella sera. La primavera era alle porte, ma a Torino stentava a farsi sentire. Sembrava quasi che bussasse, ma che poi non riuscisse ad aprire il portone d’ingresso, dopo l’avanti pronunciato in modo corale dei torinesi. Le case basse di quel quartiere operaio dall’aspetto ottocentesco, quasi da fiaba inglese, erano già illuminate dai pochi lampioni che funzionavano ancora.
Da tempo, il Borgo Vecchio era stato inghiottito dalla città. E lui cercava di venirne fuori aggrappandosi al parco della Pellerina.
Dentro c’era fermento. Una sorta di strana euforia si nascondeva dietro alla nebbiolina dei vapori soffiati dalla cucina.
La radio, disturbata a tratti da qualche interferenza, stava trasmettendo una lunga diretta.
Gaetano, un uomo anziano dai capelli lunghi e bianchi, che lo facevano sembrare un giudice, commentava l’ultimo fiasco del Toro in campionato con Pietro, l’oste. Portava, uno spolverino scuro, appoggiato su di una spalla, che sembrava un togone. Quell’impermeabile, buttato così, lo faceva apparire ancora di più un magistrato. Sulla spalla di Pietro c’era invece il solito strofinaccio da cucina. Più che un oste, lo consacrava panettiere.
Alfio, un piccoletto con l’aria da gnomo, ascoltava la radio con attenzione, davanti a un quartino di rosso.
Ael, la zingara, era come inebetita davanti a un piatto di pasta e fagioli. Dopo una giornata spesa a chiedere l’elemosina, seduta su di una cassetta di legno della frutta, davanti all’ospedale Maria Vittoria, era stanca e triste. Mangiava il suo pasto in silenzio, senza guardare nessuno.
“L’hanno già detto?”, chiese nel vuoto Viorel, un imbianchino romeno dalle guance paonazze e dalle occhiaie scavate dal vino. Nessuno si curò di rispondergli. Viorel era anche un pittore. Già, uno di quelli da strapazzo. In piola lo chiamavano Giotto. Lo facevano per sfottere. Ma secondo me era proprio lui. Lo spirito del grande artista era rimasto intrappolato, chissà per quale incantesimo, nel corpo di un imbianchino. Di quel limite, lui soffriva e si arrabbiava. Viorel era un infelice. Come poteva essere altrimenti? Ora, copriva di biacca tutte le espressioni artistiche che scovava sui muri dei palazzi o all’interno degli appartamenti.
Le due cameriere facevano la spola tra il bancone e i tavoli. Pian piano, il locale si stava riempiendo. Lole era una ragazza africana. Tutti dicevano che stava lì, perché era troppo grassa per battere. Ma, tra i tavoli, spostava le sue masse con agilità. Lole era cameriera anche nel sangue. I tavoli erano il suo ambiente e i vassoi il suo credo. Francy era piccola e magra. Dalla sua pelle, bianca come il latte, brillavano diversi piercing, piantati sul naso, sulle orecchie e persino sul mento o sulle sopracciglia . Aveva capelli biondi, qua e là macchiati di rosso, quasi come se li avesse colorati con la vernice spray. Erano sempre raccolti da un elastico, privo di ornamenti.
“Esco a farmi una siga”, disse a Pietro, come faceva ogni sera, più o meno alla stessa ora.
“La siga, la siga…. Sempre sta siga… Sei più famosa per la siga che per la figa”, borbottò lui, versando vino bianco da un pintone, privo di etichetta, a una caraffa da mezzo litro. “Quella ha tanti piercing quanti NO… Enne O! No Tav… No alla privatizzazione dell’acqua… No alla vivisezione… no agli uomini… no al lavoro… Come si fa a vivere così?”, proseguì a salmodiare, Pietro, sbattendo il canovaccio sul bancone, come se dovesse scacciare le mosche.
Gli odori di dado e di sugo d’arrosto s’impossessavano dei vestiti e dei capelli dei commensali.
“L’hanno già detto?”, chiese di nuovo nel vuoto Viorel. “Questo papa lo fanno o no?”, insisteva Giotto. Il suo era un mondo parallelo. Pareva conoscere i segreti della cultura e dell’arte, ma senza poterli afferrare. Viorel era sempre nervoso e si calmava solo a suon di bianchetti, che Pietro gli serviva, senza badare ad appuntarseli sul taccuino per il conto finale.
“Morto un papa, se ne fa un altro”, gli diede corda quella sera Alfio.
“Ma quello precedente non è mica morto. Questa volta no!”, s’intromise Gaetano, agitando le mani come un pubblico ministero.
“E vabbè… Meglio averne uno di riserva!”, s’arrese, incassando il colpo, Alfio.
“Sta cazzo di radio, ci ha rotto i coglioni, spegnila!”, disse improvvisamente Marzia. Era una donna di mezza età dall’aria fine, ma dai modi bruschi. Per un certo periodo, si era fatta mantenere da diversi uomini, facendo ruotare più relazioni… Poi, quando la bellezza aveva iniziato ad abbandonarla, s’era improvvisata maga delle carte. Qualcuno sosteneva ci azzeccasse abbastanza, altri pensavano vendesse solo fuffa. Nel dubbio, lei non esercitava nel borgo, mantenendo una certa distanza. Così aveva sempre tenuto i guai lontani da casa e, involontariamente, aveva creato anche un alone di mistero attorno alla sua figura. In piola, nessuno la contraddiceva… e quando pareva più arrabbiata del solito, gli uomini si mettevano le mani in tasca toccandosi gli attributi. Con questi gesti, le riconoscevano quei poteri soprannaturali che lei desiderava e che sapeva di non possedere. Si badi, nessuno la reputava una iettatrice, ma come si diceva, “un po’ di scaramanzia non guasta mai”.
La radio proseguiva a trasmettere voci di giornalisti e opinionisti. Ma la notizia non arrivava.
“Va un po’ per le lunghe”, commentò ancora Alfio tra sé e sé. Nello stesso istante mosse le mani verso il quotidiano di cronaca feroce e pura della città. Pareva indeciso se prenderlo e sfogliarlo o lasciarlo lì sul tavolo. Dopo un paio di tentennamenti, lo afferrai io, aprendolo a una pagina qualsiasi. Era tempo che non combattevo la solitudine con la lettura.
E’ in quel momento che arrivò la notizia. “Fratelli e sorelle, buonasera! Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui”, pronunciò alla radio il nuovo papa, con uno strano accento.
In piola si cominciò a ripetere il suo nome. Nessuno sapeva chi fosse e da dove venisse questo Bergoglio, ma pareva che tutti fossero contenti. “E’ un compagno! E’ uno dei nostri”, disse Giacomo. Operaio in una boita nell’indotto dell’auto, Giacomo era per tutti, il sindacalista. In verità non era iscritto a nessuna sigla e ben si guardava dal farlo. Lui l’avrebbe desiderato. Ma l’azienda dove lavorava era assai padronale e non avrebbe mai accettato una testacalda tra i suoi pochi dipendenti. Per il padrone, gli operai dovevano essere come figli… Andavo “educati con la frusta e sfruttati a dovere finché non diventerete veri uomini”, lo scimmiottava Giacomo in piola. Lui preferì il salario e sfogò gli ideali tra i tavoli di quella taverna per tutta la vita. A fare sul serio era stato suo nonno. Nel primo dopoguerra, aveva fondato, insieme ad altri, la sezione del Partito comunista di Campidoglio. Il sodalizio era nato appena poche vie più in là, in via San Rocchetto.
“Francesco sarà il papa dei proletari e degli umili. Finalmente il mondo cambierà”, predicò quella sera Giacomo.
“Speruma!”, commentò in piemontese Zubida. In arte Laila, era una prostituta marocchina che viveva in zona. Ogni sera, prima di andare a esibirsi in un night club, passava a bersi una birra al banco. Sosteneva che il luppolo rassodasse le tette e, alla lunga, le facesse apparire più grandi. Si faceva chiamare così perché Laila in arabo è la notte e, proprio la notte era il suo turno fisso di lavoro.
Quando abbassai gli occhi sul giornale, rimasi di sasso. A centro pagina c’era un breve articolo con la fotografia di un volto noto a tutti noi. Rambo, il compagno di Ael la zingara, era stato arrestato. L’avevano sorpreso mentre rubava dei materiali ferrosi in un cantiere lungo la Spina 3.
In quell’istante, incrociai pure lo sguardo di Ael. Aveva terminato il suo pasto. Fu un attimo d’imbarazzo. Non sapevo cosa dire e non avevo idea di come sottrarmi alle sue pupille nere e ipnotiche… cariche di mistero ed enigmi. Ael era davvero bella, ma in zona, si diceva fosse pure molto intrattabile. Terminò il suo bicchiere di rosso in piedi e si avvicinò al mio tavolo.
Gelai.
“Non fa nulla, credimi – mi disse – Ci penserà questo Francesco a riscattarci tutti”. Mi lanciò un’occhiata disperata e intrigante. Pagò il suo conto con monetine da 50 centesimi… E poi se ne andò.
Ci provai più volte, ma mai fui in grado di interpretare quello sguardo nei miei disegni.