Il Barolo, rosso rubino, oltrepassava gli argini del bicchiere e inondava la bocca. Il suo gusto strutturato s’impossessava delle papille gustative e dichiarava vinta la guerra. La sua consistenza era il giusto contraltare al sapore dolce dell’amaretto, che m’ero appena gustato insieme alle pesche sciroppate.

Quello appena sceso nello stomaco era l’ultimo sorso. La bottiglia era rimasta vuota, come una vecchia cascina abbandonata o una casa cantoniera di periferia, remota testimonianza d’altri tempi.

«Ecco. Adesso la mia vita è proprio cambiata», pensai.

Quella sera, avevo portato Mariavittoria a mangiare sulla collina di Torino. Avevo scelto un ristorante elegante, mascherato da trattoria. Le pareti del locale erano foderate di bottiglie, coricate in apposite cantinette di legno. Non si vedeva neppure un frammento di muro. Era un ripetersi continuo e ossessivo di colli di bottiglia. Tappi incappucciati da rivestimenti rossi.

Cominciammo con una Favorita delle Langhe. Ci accompagnò fino ai due primi, agnolotti burro e salvia e tagliatelle ai funghi. Prima avevamo subito, le solite setto od otto portate di antipasti piemontesi.

Quella sera Mariavittoria era bellissima. Portava abiti sobri, eleganti, ma allo stesso tempo leggermente provocanti. Mariavittoria s’avvitava nella mia mente come un cavatappi nel turacciolo. Cerchi d’oro alle orecchie, facevano risaltare i ciuffi di capelli scuri che, forse volutamente, si erano ribellati all’elastico che li raccoglieva.

Parlammo un po’ di tutto, come capita a un primo incontro.

Uscivamo insieme da due anni.

Come ogni donna, Mariavittoria era capace di infilare il demone nella bottiglia. Così presto, rimasi stregato. M’assalì una voglia matta di stringerla e di baciarla. La Favorita stava facendo il suo effetto. Mi stava sciogliendo il sangue, come capita alla reliquia di San Gennaro a Napoli.

Non ricordo nello specifico che cosa ci dicemmo.

Le storie sul vino sono quelle più difficili da raccontare. Quando il vino è buono non si ricordano mai. Eppure, seduto davanti a un calice, quasi come davanti a un microfono di una radio, ne ho sentite di quelle tante, che se dovessi scriverle tutte, supererei Sherazade nell’arte del raccontare e Le mille e una notte per il numero di pagine che potrei mettermi scrivere. Lei, Sherazade raccontava per rimandare l’appuntamento con la morte. Io ascoltavo, immagazzinavo per onorare lo spirito del vino. Purtroppo ero condannato a dimenticare, come Sherazade era invece costretta a ricordare.

Quella sera mi beavo nel fiume di parole di Mariavittoria. Mi lasciavo trasportare dalla sua voce, che mi coccolava l’anima, come il vino irrigava il mio buon umore.

Rinunciammo al secondo, ma non al dolce.

«Adesso tocca a me», mi feci coraggio.

Ordinai la bottiglia di Barolo.

«Ma sei matto? Basta un bicchiere», osservò lei.

In quell’attimo, le chiesi di sposarmi. Disse subito di sì.

Mai ottenni risposta più spiazzante. Non che non la volessi in sposa. Lo desideravo tantissimo, ma quella sera avevo previsto che mi dicesse di no. La bottiglia di Barolo doveva essere il mio premio di consolazione. Avevo in progetto di scolarmela tutta per riprendermi… per ritrovare lo spirito e tornare all’attacco, magari qualche giorno dopo.

Mariavittoria aveva mandato all’aria i miei piani. Ne fui comunque davvero tanto felice. Le raccontai della mia ingenuità, sentendomi tremendamente infantile.

«Mi piaci perché sei proprio un bambino», mi disse lei.

La bottiglia di Barolo ce la scolammo lo stesso. Ormai il collo era tirato…

«Basta poi solo modificare l’intento con cui lo facciamo», suggerì lei, con semplicità.

Poi brindammo, diverse volte, alle stesse nozze.