Fumo, poi ancora fumo. Dalle bocche dei bulgari non usciva altro che fumo. Dall’odore era un trinciato forte, di quelli che non si scordano. Lo era così tanto, che a un certo punto, mi venne da pensare che la strada per la Bulgaria uno l’avrebbe potuta trovare prima, seguendo l’odore del tabacco.
Murray era stupito che tutti fumassero e allora io gli dicevo che era solo un quacchero bigotto. Ero arrabbiato con lui. Mi aveva trascinato in quel viaggio massacrante.
Di certo, io avevo le mie colpe. Quando mi aveva chiesto di accompagnarlo. Io gli avevo detto subito di sì. Allora per me, viaggiare voleva dire soltanto provare cibi piccanti e, possibilmente, conoscere belle donne.
Quasi senza soldi, completamente senza idee, ci trovavamo al mercato delle donne di Sofia. E da donne eravamo circondati. Erano le zingare, che vendevano sigarette di contrabbando. «Tsigari, molya». «Sigarette prego». Era il loro mantra. I bulgari le chiamavano mangali e lo facevano con un certo disprezzo. Loro, se ne infischiavano. Che cosa gliene importava? Tanto alla fine, le sigarette le compravano da loro perché costavano di meno. Lo faceva anche la temutissima polizia politica. Era risaputo anche lì, in uno stato comunista: chi disprezzava, alla fine poi comprava pure. Mi sarebbe piaciuto conoscere l’autore di questo detto. Secondo me era stato un economista geniale.
“Adesso cosa facciamo?”, mi chiese Murray.
“Beh. Prendiamo un pacchetto di sigarette anche noi. Sembra sia questo il piatto tipico del posto”, gli risposi. Lui scosse la testa e si allontanò da me. Murray era purista e salutista. Io lo avevo stuzzicato. Lo avevo fatto apposta.
Ero ancora arrabbiato con lui, ma in fondo era stato solo ingenuo. Era approdato a Mostar perché pensava di poter arrivare in Grecia, passando dall’Albania. Ci avevo messo il mio tempo a spiegargli che l’Albania era tabù. Nessuno entrava e nessuno ci usciva. Per lui era inconcepibile.
“Poi, te la racconto. L’Europa è così”, gli dissi soprattutto per rincuorarlo.
Alla fine, si convinse. Era il caso di ripiegare nell’interno, verso Sofia.
Del mercato delle donne, oltre alle mangali, vestite con tute da ginnastica che a me ricordavano i documentari sulla Germania dell’Est, ho presente un recinto pieno di angurie enormi. Quasi non ce la facevano a starci tutte dentro. Le vendevano donne stanche, dall’età indecifrabile. Dai loro chiassosi foulard scappavano disordinate ciocche di capelli, neri come il carbone. E allora, i Balcani m’apparivano come un posto meraviglioso, perché grondava fatica, storia, insomma vita ovunque.
Il mercato straripava anche di cetrioli. Li proponevano un po’ tutti i banchi. Poi, chiunque fumava. Fumavano le zingare che vendevano le sigarette. Fumavano i carrettieri. Fumava la gente che curiosava tra i banchi. Fumavano le donne stanche. Tutto quel fumo, ci confondeva ancora di più.
“Cerchiamo un posto dove dormire e domani vediamo cosa fare”, dissi poi a Murray. Rispetto a Mostar era un’altra persona. Era spaesato e spaventato. Lo Jenskja Pazar, il mercato di Sofia, era fuori dai suoi canoni a stelle e strisce.