“Chiedo scusa, ma che cosa ha fatto ieri sera, l’Unione Sovietica?”. Quell’anziana mi fece la domanda in italiano stentato all’imbocco dello Stari Most, il celebre ponte di Mostar, la mattina del 16 giugno del 1988. Fu il mio primo contatto con una donna sovietica. Fino ad allora non avevo mai parlato con i russi. Le risposi in modo confuso. Ricordavo che la Russia aveva giocato con l’Irlanda agli europei di Germania. Avevo anche letto il risultato alla televisione jugoslava, a casa di Draga, ma non lo ricordavo proprio. “Ha perso due a uno. Mi spiace”, le dissi per non interrompere il dialogo e rimanermene muto davanti alla sua domanda. In quell’attimo provai una strana sensazione. Avessi detto non lo so, sarebbe stato come chiudere un ponte che si stava aprendo. Così, pur di parlare, tirai a indovinare. Lei ringraziò e si allontanò. Forse era la prima volta che metteva in pratica l’italiano e mi sembrava soddisfatta che l’avessi compresa. Oppure voleva anche lei un suo primo contatto con un occidentale, nutrendo la stessa curiosità che avevo io verso il mondo sovietico. Murray era già in mezzo al ponte, con la testa all’ingiù verso l’acqua della Narenta. Io sapevo che c’era perché la sentivo scrosciare. Ero emozionato. Ero confuso, forse più confuso che emozionato. Come in un flash, mi si presentarono una marea di bambini russi che giocavano con mille palloni in una periferia sovietica, di quelle che facevano vedere sui libri di storia, con palazzoni alti, tutti fatiscenti uguali. Non riuscivo a capire se fossero di più i palloni, i bambini o i palazzoni. Quei ragazzi erano in mutande, oppure indossavano calzoncini vecchi, di quelli che da noi non andavano più di moda.

E mi venne in mente che un ponte era il posto ideale per fare incontri storici. Per me fu davvero così con quell’anziana russa. Lo ricordo ancora oggi, a più di 30 anni, ho impresso in mente quel 16 giugno.

I ponti uniscono e i muri dividono. “Non ti sembra strano che siano sempre gli ingegneri a farli?”, osservai a Murray. “L’ingegnere che fa i ponti dovrebbe essere più importante di quello che fa i muri perché ci permette di spostarci, di viaggiare. Oppure, l’ingegnere che fa i muri non dovrebbe chiamarsi ingegnere”.

“Che cos’hai questa mattina, parli come la sera dopo il bagno del Retsina”, mi rispose lui. Murray era inquieto.

Già, la mattina. La mattina era il momento dei paesi dell’Est Europa. Una città a Est era speciale di mattina, proprio come lo era Parigi, o Barcellona la notte. Ne ero convinto, una città dell’Est andava visitata con il sole ancora basso, in arrivo dall’Asia. Alle città dell’Est serviva quella luce a ventaglio che pian piano si faceva più intensa e faceva riemergere i palazzi, le chiese, le strade e i ponti.

Murray era inquieto. Voleva partire per la Grecia. Là lo aspettava la sua Annuk. Io non avevo ancora deciso cosa fare. Sarei tornato a Torino. Era quello il mio programma, ma ero anche libero di fare quel che mi sarebbe andato a genio.

Murray aveva la sua Annuk. L’aveva conosciuta durante quel viaggio. Lui era arrivato in Portogallo dall’America in barca a vela con quattro amici. Una volta sbarcati, esausti di stare insieme dopo un mese negli spazi stretti di una barca, avevano deciso di separarsi, per ritrovarsi solo dopo tre mesi, per il rientro. Murray e Annuk si erano conosciuti a Ginevra, dove lei viveva. Poi, lei era andata in vacanza in Grecia con la famiglia. Murray era capitato per caso a Mostar. Era di passaggio per raggiungere la Grecia al minor costo possibile.

“Hanno fatto uno a uno”, disse improvvisamente Murray quando lo raggiunsi per sporgermi anche io dal ponte.

“Cosa?”.

“La partita di ieri sera… Irlanda Unione Sovietica. Uno a uno”.

“Non pensavo che un americano s’interessasse di calcio”, osservai.

Poi, senza un motivo particolare, non ci parlammo più fino all’ora di pranzo.