Questa sera sono uscito in balcone. Non lo avevo ancora fatto con l’emergenza coronavirus. C’era un silenzio incredibile. Non un’auto sulla provinciale. Non un rumore sulle altre strade che conducono a casa mia. Solo la luce fioca e lontana dei lampioni. Ho avuto i brividi. Mi sono sentito parte di un mondo quieto.

Non provavo una sensazione del genere dal 1988. Mi trovavo a Mostar. Sulla provinciale per Sarajevo sarà passata una sola auto, forse una Zigulì, nel giro di un paio d’ore. Ricordo quel suono ovattato del motore, che spezzava il silenzio in lontananza. Poi, la mia immaginazione è partita… Ho pensato a un’urgenza di un emissario del governo, a una spia sovietica, o a chissà quale traffico levantino. Stavo in pace con me stesso. Mi sentivo parte di un mondo più grande di me, ma in qualche modo con una sua giustificazione. Mi sentivo vicino al popolo jugoslavo e agli zingari che mi ospitavano nel loro rudimentale, ma ospitalissimo, primo esempio di agriturismo della storia. Ero felice.

Questa sera, era tutto diverso. Il virus è un nemico che non unisce. E’ un mascalzone che separa, che ci rende sospettosi e ci fa tenere le distanze. Ho voluto pensare lo stesso a un mondo migliore, costruito con la quiete che si prova tra le mura di casa, ho voluto immaginare un mondo fatto di silenzio. Poi sulla strada del traforo è passata un’auto. Il suono ovattato in lontananza del suo motore, mi ha riportato alle storie di spie, di trafficanti e di guerra fredda, anche se probabilmente si è trattato soltanto di una gazzella di controllo dei carabinieri, o di qualche sconsiderato residente che ha voluto spostarsi, nonostante i divieti.